Odore di alito di leone, fetido odore di alito di leone. Denti cariati ma aguzzi, bava sanguinolenta, brandelli di carne marciscente appesi alle gengive. Tutto questo stava sospeso davanti al volto di Jenna, mentre con la sua forza erculea cercava di tenere aperte quelle mefitiche mandibole, facendo in modo che le due metà della bocca non si unissero schiacciandola in mezzo. La bava rancida colava sugli sbuffi gialli e rossi delle maniche del suo ampio vestito, i bicipiti d’acciaio cominciarono a tremarle. La donna stava per cedere, quando sentì l’urlo terribile che riecheggiava più e più volte nelle mille stanze del palazzo imperiale. Sotto lo sguardo di cupi arazzi, tra cuscini d’oro e porpora, il petto di Jon Wastland era stato appena trapassato dalla spada dell’imperatrice, il sangue colava rabbioso dalla ferita e scivolava lungo il costato sporcando i preziosissimi drappi argentati del letto. Davanti a lui la bionda imperatrice si gustava la scena, la spada ancora stretta nella mano piena di anelli, la lingua assatanata di sangue che scivolava bramosa tra le labbra, come a pregustarsi un lauto banchetto. Jenna ebbe un capogiro, le braccia le tremarono ancora più forte. In un solo istante aveva capito che tutto era finito, che non c’era più modo di fermare l’imperatrice, che presto i denti del leone si sarebbero chiusi e non ci sarebbe stato spazio per il futuro. Gli occhi della donna si trovarono a fissare la gola della belva, quella che presto sarebbe stata la sua tomba, e nell’apice dello sforzo rivide il suo passato. Erano immagini vaghe, flash che scoppiano più rapidi del tuono nel cielo. Eppure la mente di Jenna precipitò tra di loro a capofitto, e per un attimo la bocca del leone si fece più lontana…
Le rocce aguzze dei monti Ravedi, cime scheggiate che si perdevano nel biancore della Luna piena, la paura dello strapiombo che le prendeva i genitali ogni volta che si voltava a guadare in basso, il rumore dei gelidi ruscelli che sfiancavano le montagne e nutrivano le nere conifere. E poi la paura, la paura che rendeva tutto grigio, un tunnel mostruoso da cui si voleva uscire il prima possibile. Jenna era stata spavalda come suo solito. Grazie alla forza sovrumana ricevuta in dono dalla dea Artemis, la donna poteva permettersi di fare quello che voleva, senza dubbi, senza paura. Incontrare un gruppo di briganti nei boschi poteva essere un problema? No di certo, anche se uno di loro era un Marcantonio d’uomo, un orso senza pelliccia e bramoso di sangue! Jenna aveva cercato di sopraffarlo, aveva infranto la sua pesante clava sulla testa priva di peli dell’uomo. Ma il ceffo non aveva sanguinato, non era stramazzato al suolo morto: era solo scoppiato a ridere, insensibile alla carezza del suo legno. Così la donna era fuggita nei boschi, per la prima volta priva della sua benedetta sicurezza in sé stessa. Bestemmiando i nomi di mille divinità montane, i briganti l’avevano inseguita per i gioghi del monte.
Una Luna di sventura brillava sempre più grande nel cielo privo di nuvole. Lontana dai sentieri battuti, Jenna percorreva luoghi senza nomi, frequentati solo dai lupi di Bragh e dalle divinità sephirotiche, quelle che amavano star lontane dal sudiciume degli uomini e vivevano in regge invisibili tra le rocce. Gli ampi vestiti colorati, simbolo dell’offerta di sé stessa ai culti della dea Artemis, si impigliavano nei rami più bassi, il cappellone a falde larghe verde e arancio rischiava di volar via a ogni soffio di vento. Giunse infine a una sorta di bivio: da una parte si apriva una radura, dall’altra si saliva verso la cima dei monti. La donna stava per intraprendere la prima strada, quando vide delle ombre. Le tornò allora in mente il brigante colossale, e in preda al panico prese la via del monte, sperando di non vedere nessuna divinità sephirotica. Era notorio che incontrare una di quelle entità di notte fosse un segnale di grande sventura!
Jenna correva, correva come un’ossessa tra pietraie e abissi innominabili. Ma ogni tanto si fermava per riprendere fiato, e nel silenzio della notte sentiva qualcosa di simile a un ululato. Poteva essere un lupo di Bragh o una divinità Sephirotica, non lo poteva sapere e al momento non le interessava. Aveva visto altre ombre tra le rocce più in basso: i briganti l’avevano scovata e la stavano seguendo, il tempo per riflettere era finito. Jenna voleva solo vivere: la vita non le era mai stata tanto cara come in quella notte priva di vita! Giunse infine a uno spiazzo dove il cielo si apriva immenso e lo sguardo poteva divorare tutta l’immensa pianura. Sopra di lei c’era solo un immenso roccione, e voltandosi a guardarlo Jenna vide un’ombra scura, un essere magro, in perizoma che avanzava mugghiando verso lo strapiombo con lo sguardo rivolto verso le stelle.
«Fermati! C’è l’abisso davanti a te!» urlò la donna, forse pensando alla vertigine che la coglieva tutte le volte che guardava in basso. Quelle parole non furono vane: l’uomo le sentì, il suo sguardo abbandonò le stelle e puntò verso il basso. In quelle orbite cave si aprivano due orrende luci bianche, spiritiche e inumane, poi quel bianco assurdo si fece rosso come le braci di un fuoco mai spento. L’aria divenne calda e Jenna sentì un calore di morte passarle affianco ed esplodere alle sue spalle. Si diffuse nell’aria un fumo denso, un odore di carne bruciata simile a quella che si sentiva negli accampamenti degli Ogre quando veniva l’ora del desco. Con gli occhi ancora abbagliati dal raggio rosso la donna aveva gettato uno sguardo dietro di sé, giusto in tempo per vedere il cadavere carbonizzato del brigante-montagna urlare e precipitare in fiamme verso la pianura.
«Oh Artemis! Dammi la forza!» disse prima di inciampare e cadere nel fumo che la stava soffocando.
L’azzurro del cielo non era mai stato tanto azzurro, il gorgoglio delle acque di un torrente non era mai stato tanto gradito. Ancora sommersa dalla cortina del sonno Jenna cerco di muovere le dita intirizzite dal freddo e fu così che si accorse di essere viva. Riaprì gli occhi con una dolcezza che non le era propria. Lei era la donna che aveva abbandonato la civiltà e l’uomo, lei era la devota di Artemis, la vitale Jenna! La rude donna dalla forza invincibile!
La clava che si frange sul collo erculeo, il brigante che ride, la fuga sui monti, la paura che lei non avrebbe dovuto conoscere.
I ricordi dell’ultima sera le passarono nella mente in un solo istante e Jenna si levò quasi urlando. E si trovò davanti agli occhi l’asceta rasato e a torso nudo che la fissava con una severità inconcepibile per la donna. Fu quella bocca apparentemente inflessibile la prima ad aprirsi e a gettare fredde parole nell’aria del mattino.
«Tu… tu mi hai salvato la vita…»
«Non… non ringraziarmi! Anche tu…»
«… e non dovevi farlo!»
«Cosa!?!»
«Cosa pensavi che stessi facendo in cima a quel monte? Prendendo la tintarella di Luna!? Stavo compiendo gli ultimi passi necessari per varcare il cerchio della serpe e tornare nel pleroma con i miei veri compagni! Perché hai voluto condannarmi ancora alla prigione della Carne?»
«Ma di che serpe stai parlando? I serpenti non sopravvivono in cima ai monti in Inverno! Stavi solo per sfracellarti! E comunque, bellezza senza capelli, eri tu che non dovevi salvarmi!»
«Perché? Tu credi in culti demoniaci, dopo la morte sei destinata ai peggiori supplizi sublunari e al permanere nel circolo delle Necessità. Tu non hai nulla da guadagnare dalla dissoluzione del falso vivente!»
«Falso vivente!? Ma di cosa parli?»
«Della morte! Voi profani non la chiamate così?»
«Bene. I miei “culti demoniaci” mi condanneranno a strani supplizi dopo la morte. Ma prescrivono anche una grande cosa: il senso dell’onore. E io ho infranto questo onore, fuggendo dai banditi ho disonorato la sacra fascia che porto! Dovevo morire per soddisfare la Dea!»
«Dunque ieri sera dovevi morire anche tu!?! Beh, nel caso mi dispiace. Io ti ho salvato la vita, per quello che vale. Ora puoi farne quello che vuoi! Io tornerò sui monti. Cercherò di evocare il Pleroma…»
«No, fermo, tu non hai capito!»
«Che fai donna impura? Perché mi segui?»
«Tu mi hai salvato la vita! Non dovevi ma l’hai fatto!»
«E quindi!?»
«Ufh, devo sempre ripetermi? Artemis mi impone la legge dell’onore. E l’onore richiede che io sia tua serva!»
«Cosa? Un demone della falsa vita mia serva? Non se ne parla nemmeno!»
«Queste sono le regole!»
«Ma tu mi hai già salvato… la vita, questa vita inutile! Considero estinto il debito nei miei confronti! Vattene!»
«Vorrei anche io che le cose fossero così semplici!»
«Ma lo possono essere! Fammi tornare nel Pleroma!»
«Mettendo a rischio la tua vita mi stai solo spingendo a starti più dietro, perché non sei una persona come tutte le altre!»
«Perché non voglio la vostra falsa esistenza! L’ho conosciuta abbastanza e non mi è piaciuta per niente!»
«Vita vera, vita falsa, uff! Io non capisco proprio di cosa tu stia parlando! Io conosco solo questa nostra esistenza presente, e per lei e per il mio debito d’onore ti salverò tutte le volte che sarà necessario! Anche a costo di spaccarti quella faccia da scheletro che ti ritrovi!»
Fu così che nacque la coppia più assurda del mondo Occidentale. Ossessionato dagli oscuri dettami ascetici degli Ofiti, Jon pensava al mondo come alla pustola del cosmo, la creatura abortita di un Dio empio e ignorante, e per questo motivo voleva solo sfuggirgli tramite la morte. Jenna, fedele ad arcani culti della natura, non poteva comprendere queste strane credenze. Così Jon cercava di sfracellarsi in un burrone, ma Jenna lo placcava e lo legava a un albero, Jon afferrava un coltello per piantarselo nel petto, ma Jenna gli stortava il braccio e nascondeva l’arma in fondo a un fiume, Jon si faceva morsicare da un serpente e Jenna succhiava via il veleno con le sue stesse labbra.
«Sei una peripatetica! Una sozza creatura inviata dagli arconti per tentarmi e allontanarmi dal mio Fine Supremo! Vattene! Vattene da me!»
Jon ripeteva questa frase tutti i giorni, come una preghiera rivolta a un Dio sordo o che faceva finta di non sentire. Infatti Jenna continuava a stargli alle calcagna, camminando per monti, valli e desolazioni occidentali. Ma col passare del tempo le frasi di Jon divennero meno aspre, i suoi tentativi di suicidio rituali meno decisi. Svegliandosi la mattina provava un po’ meno dolore nello stare al mondo, sentendo l’odore del Caf-fhe riscaldato da Jenna sul fuoco sentiva finalmente un po’ di gioia. Non di meno anche la donna diventò col tempo meno irruenta e brutale. Le conversazioni con l’Ofita le avevano insegnato a prendere la natura in maniera più tortuosa. Scoprì in questa maniera che esisteva qualcos’altro oltre all’azione e alla forza, e questo la fece entrare in crisi. Nelle fredde notti delle terre selvagge ci fu più di un momento in cui avrebbe voluto sciogliere la cinta di Artemis e i duri voti che questa comportava, per poter scoprire i doni della voluttuosa Cipride insieme a Jon. Ma poi si rese conto che lui non l’avrebbe voluta, che avrebbe considerato quell’offerta solo l’ennesima tentazione degli arconti malvagi. E si tenne la cinta addosso, stringendo più forte le braccia attorno ai fianchi.
Dopo tre anni passati in questo modo, Jenna notò che c’era qualcosa di strano nelle terre selvagge. I Lupi di Bragh si erano allontanati dai loro territori e sconfinavano sempre più frequentemente nelle vallate, saccheggiando e sfamandosi di carne umana. Durante le notti prive di Luna si vedevano strane nuvole rosse vagare nel cielo, mentre sulle cime dei monti le Sephiroth imbastivano mostruosi banchetti e le luci che accendevano tra le rocce rischiaravano a giorno persino le grotte più oscure. Pazzi e profeti ispirati sputavano parole di minaccia sul mondo e sul futuro. Temendo che stesse per succedere qualcosa di terribile, Jenna pensò che fosse meglio tornare nelle terre dell’Impero.
«Se hai paura della morte, vai pure, a me non interessa. Lo sai che è quello che sto aspettando da tre anni!» disse boriosamente Jon. Ma poi seguì Jenna senza dire altro.
Il ritorno nelle terre dell’impero fu strano per Jenna, anche perché intorno a lei era tutto cambiato. I verdi campi irrigati dai canali erano diventati distese di sabbia crepata, tutti gli alberi erano morti e le case di solito linde e ben curate erano state lasciate alla dissoluzione. Ogni tanto si trovava qualche muccarella scheletrica che vangava la terra col muso in cerca di acqua, mentre cani famelici e rabbiosi si gettavano sui viandanti con brama assassina. Nella desolazione più completa non trovarono anima viva, se non un carozzone di zingari che depredava le case vuote. Jenna li sistemò tutti con un paio di cazzotti ben assestati, e interrogandoli venne a sapere che nelle terre dell’impero non pioveva da almeno cinque anni. La popolazione disperata era fuggita dalle campagne in città, sperando di trovare i pochi viveri rimasti nei magazzini della corona. Ma l’imperatrice era una donna malvagia, impegnata da anni in una guerra contro i Baath del Nord che non stava portando a nulla. L’imperatore invece era scomparso da tempo, forse disgustato dai troppi amanti della moglie. Jon e Jenna lasciarono gli zingari alle loro rapine e decisero e di recarsi nella capitale per vedere le cose come stavano. E trovarono solo altra miseria e fame, oltre a un discreto mal di testa che affliggeva la povera Jenna da quando erano entrati nelle terre dell’impero. Parlarono con molte persone, consultarono diversi oracoli. Ma alla fine solo un vecchio indovino riuscì a indicare loro la causa della devastazione:
«Il mondo per sopravvivere ha bisogno dell’accordo tra gli opposti. È una magia antica e su questa magia si è fondato il nostro impero. Ma ora l’imperatore è troppo debole, cerca di fuggire piangendo da questo regno, l’imperatrice è troppo malvagia e prepotente. Senza l’armonia degli opposti questo mondo è destinato alla devastazione e quello che vedete è solo l’inizio di catastrofi ben peggiori!»
Jon e Jenna si trovarono fuori dal tugurio dell’indovino a discutere del futuro.
«Il mondo…» sussurrò Jon, molto più scosso di quanto Jenna si sarebbe mai aspettato «io sono entrato negli Ofiti perché ero disgustato dal mondo e credevo non avesse più nulla da darmi. Mi sembrava qualcosa di marcio e di finto, uno zuccherino usato per farci inghiottire il malessere della vita. E gli Ofiti mi rafforzarono in questa convinzione. Sai, a volte salivamo sulle cime dei monti e gli insegnanti anziani ci facevano recitare arcane litanie, mentre altri suonavano cembali e gettavano in bracieri infuocati erbe e farmaci di fattura orientale. Era allora che il cosmo ci si mostrava nella sua forma più semplice e brutale: un serpente famelico che tiene stretto nella sua bava il nostro pianeta e inghiotte le anime di quelli che credono di trovare la gioia nella nostra vita. Per questo volevo abbandonare il mondo, la sentina del serpente. Ma poi…»
«Poi!?»
«Poi tu, Jenna… tu, il demone della falsa vita… tu mi hai corrotto, mostrandomi che qualcosa di bello c’è in questo mondo. Qualcosa che va salvato!» e così dicendo le pose una mano sulla guancia. Jenna lo lasciò fare.
«Ora l’imperatrice vuole distruggere tutto con la sua brama di potere… Jenna, nel palazzo dell’imperatrice ci sono armi devastanti, demoni capaci di spazzare il mondo più e più volte! E non mi meraviglierei se si scoprisse che questa carestia sia l’effetto collaterale di una di queste armi!»
«Tu… tu come fai a saperlo?»
«Io… Jenna, io non sono sempre stato un Ofita! Io un tempo ero l’imperatore! Un imperatore che ammaestrato dalla crudeltà della moglie ha imparato a odiare il cosmo che l’ha generato! Ho voltato le spalle al mio regno e solo ora mi accorgo di aver fatto male! Jenna, devi aiutarmi!» la sua mano era scesa dalla guancia al collo, sfiorando la pelle della donna con sempre maggior delicatezza.
«In che modo?» rispose lei tremando leggermente.
«L’imperatrice possiede come guardia del corpo un leone di Massud, una bestia potente e invincibile. Io conosco il modo per penetrare nel palazzo e giungere nel talamo della regina. Ma il leone mi troverebbe e mi strazierebbe! Solo tu puoi fermarlo! Con la tua forza puoi! La tua forza è incredibile e unica…» e nel dire questo la mano era scesa ancora di più, verso la scollatura e il seno.
«Lo farò!» rispose Jenna alzandosi in piedi e non guardando deliberatamente negli occhi Jon. L’imperatore abbassò lo sguardo.
«Sapevo che non avresti rifiutato. Ti ringrazio. Domani dopo il tramonto l’azione sarà svolta. Vedrai, vinceremo! E riporteremo la pace nel mondo» ma nel dire queste parole di speranza abbassava lo sguardo a terra e un paio di lacrime bagnarono il terreno.
La città, un torrente di fiaccole. La vedevano dall’alto, mentre avanzavano sull’antico acquedotto, diretti verso le interiora del palazzo imperiale. A volte comparivano più in basso le teste delle sentinelle che facevano la guardia. Jon e Jenna fermavano il respiro e tiravano avanti. La vittoria era a portata di mano.
Le interiora del palazzo, un abisso di buio e silenzioso. Avanzavano senza luce e sentivano solo i lontani passi delle sentinelle o qualche goccia d’acqua che cadeva in abbandonati bacili. Avanzavano senza fiatare. La vittoria era a un soffio da loro.
Le stanze della regina, un soffocante tormento di drappi e arazzi. Questa volta Jon non avanzava più, tastava i cuscini con le mani, si sentiva osservato e sapeva il perché. Era come un topo nella tana di un serpente: quanto tempo avrebbe avuto prima di essere divorato? Ma Jenna lo salvò: era un leone verde, scaglioso, più simile a un rettile che al re della Jungla. Si avventò con le sue zanne alla giugulare di Jon, ma Jenna afferrò gli immensi canini, bloccandogli le ganasce e salvando ancora una volta la vita all’imperatore.
«Questo lo fermo io! Vai avanti! Non fermarti!»
L’uomo non se lo fece dire due volte. Avanzò tra i cuscini, giunse sul letto dove doveva dormire la moglie, il coltello sguainato e pronto all’uso.
«La tua freddezza… la tua freddezza non potrà più nulla! L’equilibrio sarà riportato nel cosmo!»
E piangendo sferrò un colpo nelle coperte che, squarciate, vomitarono fuori una valanga di piume. Allora le luci si accesero, una risata fredda si sparse nell’aria. La vittoria era ancora a portata di mano?
Aveva i capelli biondi e lunghi, ed era alta. Una lunga veste rossa e blu copriva tutto il suo corpo e nelle due mani stringeva lo scudo con l’aquila imperiale e lo scettro del potere. Nei suoi occhi il disprezzo si spingeva su tutto quello che vedeva, nella bocca questo disprezzo scivolava e si trasformava in una nera risata, più cupa delle tempeste sui monti Ravedi.
«Sentivo da giorni il tuo odore nell’aria, marito! Sei tornato, ma non potevi sconfiggermi! Non ce l’avresti mai fatta! Terribile è il mio potere!»
Jon cercò di smentirla, il potere del fuoco penetrò nei suoi occhi e un raggio distruttore partì alla volta dell’imperatrice. Sui monti quel raggio aveva annientato un brigante forte come una roccia: l’imperatrice si limitò a sollevare il suo scudo e il raggio di morte si disgregò innocuo in mille faville. Allora si vide uno sfavillio d’acciaio, la donna aveva estratto dallo scettro una spada e con un colpo preciso era penetrata nel petto di Jon. Jenna, impotente come uno scalzo in una valle di cocci di vetro, teneva ferme le ganasce del leone…
Il volo nel passato era finito, nella bocca del leone Jenna vedeva ora solo la morte, non quella di Jon ma la sua. Ma no, non poteva finire così! Era stata impotente, non aveva fatto nulla per salvare Jon, ma ora poteva almeno vendicarlo, doveva farlo! Artemis le aveva impresso in mente con lettere di fuoco l’importanza della parola “onore”!
L’imperatrice, sporca del sangue del marito, si stava facendo vicina a Jenna, gli occhi vispi e mobili, pronti a gustare ogni dettaglio della sua morte. Le fauci del leone si stavano quasi per chiudere, la testa e il corpo della donna si trovavano in mezzo. La vecchia Jenna, cocciuta e testarda, non avrebbe mai potuto vincere. Ma Jon le aveva insegnato qualcosa sulla tortuosità del mondo e della natura: ora lei sapeva che pur perdendo poteva vincere! E così smise di resistere, le sue gambe cedettero di colpo, il suo corpo cadde indietro, proprio dove si trovava l’imperatrice. Il leone, non più frenato, balzò in avanti e chiuse le fauci, penetrando contemporaneamente nelle carni dolci di Jenna e della sua nemica. La regina, inaspettatamente travolta dal destino di morte, cercò un’estrema difesa, porse in avanti la stessa spada con cui aveva ferito a morte Wastland e con questa trafisse sia Jenna che il leone.
Ora erano quattro creature vicine alla morte. Con le ultime forze Jon riuscì a stringere la mano di Jenna.
«Alla fine hai vinto tu Jon, non sei contento? Finalmente potrai raggiungere i tuoi amici in cielo!»
«Non dir sciocchezze Jenna, tu mi hai contaminato! Il cielo non lo vedrò più, nemmeno col binocolo! Ora io amo la vita, anche quel poco che è rimasto in me… e ho una sola gioia grande e terribile: abbiamo vinto sul nemico!»
«Ma stiamo per morire entrambi, a che è valso questo sacrificio?»
«Dal nostro sangue il mondo tornerà a vivere. Solo dalla mia morte sapevo che avresti tratto la forza necessaria per eliminare l’imperatrice e il leone! Senza questa spinta avresti fallito! Io lo sapevo e perciò mi sono fatto trafiggere spontaneamente.»
«Sei un infame Wastland! O Artemis, perché non sento più le mie dita? Vorrei muoverle ma non riesco…»
«Non parlare, sta arrivando! Non la vedi Jenna?»
«Cosa!? La vista mi si appanna, non riesco a vedere quasi più nulla! Di cosa parli?»
«La ghirlanda! La Ghirlanda! La luce!»
«Non Capisco! Sento solo freddo, Jon! Non sento più le braccia, dov’è la mia forza!»
«Il serpente! Il serpente non divora più il mondo! Le sue scaglie si sono trasformate in foglie d’alloro, il suo corpo una ghirlanda!»
«Il freddo mi sale dal cuore! La vista mi si annebbia! Che mi succede Jon?»
«Il mondo non è più la putredine di uno Dio sciocco! Il mondo è una donna bionda, bellissima! Oh Jenna, non lo vedi? Quanto è bello il mondo!»
«Jon, tu conosci la morte, tu ci hai vissuto, come posso tenerla lontana? Come posso stornare queste tenebre? Sento così tanto freddo… io non voglio questo freddo! Allontanalo col calore della tua vista!»
«Guarda questa luce, è più grande di tutto il cosmo! Ora vedo tutto con chiarezza! Domani… domani il cielo farà l’amore con la terra! Che fai Jenna? Perché non mi rispondi? Sei anche tu annebbiata da tanta luce?»
E mentre parlavano il vento prese a soffiare sulla terra tanto secca da morirne. Grandi nuvole si addensarono in cielo, lampi terribili illuminarono tutto il cielo, tutta la gente nelle piazze gridò al miracolo. Poi cadde la pioggia, l’acqua riempì i canali, i letti dei fiumi esausti, i solchi secchi della terra. Il giorno dopo nacquero i figli della pioggia, e la terra si riempi di fiori, fiori rossi come il sangue sparso in terra da Jon e Jenna.
Il ragazzo stava colorando con le matite colorate il mandala che lui stesso aveva disegnato. Nella stanza accanto il dottor H***, eminente psicologo Junghiana, stringeva con una mano gli occhiali e con l’altra i fogli con la storia scritta dal paziente. Fissando la sua assistente scosse leggermente la testa con fare professionale.
«Ha letto la storia che ha scritto?»
«Sì…»
«Proverà di nuovo il suicidio, mi sembra chiaro. Non sta riuscendo per nulla a superare i suoi contrasti interiori!»
«Ma il finale… non ha letto il finale? I fiori rossi che ripopolano il mondo… non sembrano una simbolo importante di pacificazione e vita? Forse è sulla buona strada verso il processo di individuazione?»
Il dottor H*** fissò ancora il ragazzo che continuava a disegnare tutto indaffarato. Nel centro del mandala spiccava solo una grande rosa rossa su sfondo nero. Scosse di nuovo la testa, in maniera ancora più professionale di prima.
«No. Nessuna evoluzione, forse solo un peggioramento. Ora il paziente vede la morte come un qualcosa di salvifico e portatore di vita, l’unica cosa che può portare alla pacificazione del Sé e al compimento del processo di individuazione di cui tu parli. Cos’altro pensi che rappresenti il matrimonio del cielo e della terra con cui si chiude il suo racconto? No, no… alla noia di vivere si può sopravvivere. Ma alla forza dell’ideale? Si può forse sopravvivere all’ideale?»
di Matteo Mazzucchi
disegno di Matteo Mazzucchi
N.B. Il Vizio del mese è :Tarocchi; a ogni redattore le sue tre carte. La storia era già scritta in loro.